«Era dominato dal violento insorgere della vita, dalla marea dell'essere, dalla completa gioia di ogni singolo muscolo, di ogni giuntura, di ogni nervo in quanto essi erano tutto ciò che non è morte, tutto ciò che arde e che aggredisce esprimendosi nel movimento, volando esultante sotto le stelle e sulla superficie della materia immobile.» Jack London, il Richiamo della Foresta (1903)
Nel più celebre dei romanzi di Jack London, Buck, fugge dagli agi per riconquistare, a nostro avviso, più che la libertà, la sua vera intima essenza, la sua individualità e compiutezza... l’anima? Dalla tranquilla esistenza nella casa californiana, viene ingannato, rapito, bastonato, affamato, costretto ad un lavoro annichilente ed al freddo estremo, e dopo una breve tregua di ultima possibile amicizia con l’uomo, torna infine alla primitiva foresta, accanto ai lupi, suoi "fratelli selvaggi". In una narrazione di epica immediatezza, di straordinaria, essenziale intensità London crea nella figura di Buck l'immagine emblematica di una fuga dalle convenzioni e dalle pastoie della civiltà. Buck compie un viaggio a ritroso, riappropriandosi della sua natura di lupo. Al contrario, l'uomo si allontana dalla semplicità di un'esistenza naturale per cercare la, presunta, ricchezza. E va così incontro alla propria distruzione.
Una lettura sulla Wilderness Jack London - Il richiamo della foresta (The Call of the Wild) (Einaudi, Torino, 1996)
Il
cane Buck si sentiva davvero a suo agio nella ricca e sicura
tenuta del Giudice Miller.
Non gli mancava nulla ed era tenuto in così gran
considerazione da sentirsi il sovrano di tutte le cose
viventi e non che lo circondavano. Le sue serate le passava
accucciato tra le gambe del padrone davanti al caminetto.
Ma, normale destino per chi sta come lui, un giorno viene
rapito a tradimento e venduto per pochi soldi ai cercatori
d’oro. Nel giro di poco tempo si ritrova ingabbiato e
bastonato, obbligato a tirare slitte su e giù per l’Artico,
in un ambiente ostile ed al limite della sopravvivenza.
Questo ambiente, frequentato da animali selvaggi e feroci,
capace in pochi minuti di inghiottirsi uomini cani e slitte,
incontaminato nelle sue notti di luna piena o di bufera sarà
la benedizione per Buck.
Infatti “il mondo dei sentieri della natura selvatica è una
scuola straordinaria, e coloro che ci vivono possono essere
maestri rudi e divertenti” (1). Sarà qui, nell’ostilità e
nello stupore di fronte a quegli scenari, che Buck imparerà
a cavarsela. I suoi sensi si esalteranno in modo inaspettato,
il suo istinto lo guiderà infallibilmente nell’orientamento,
la sua ferocia ed il senso di giustizia convivranno,
imparerà ad uccidere gli altri animali solo quando ha fame e
non come passatempo. Scoprirà dolorosamente una libertà che
anche per l’uomo, oggi sottoposto ad una
“elementarizzazione, una riduzione della complessità che
finisce per cancellare ogni tratto individuale e ogni
profondità ontologica” (2), sarebbe di grande beneficio.
Infatti “le lezioni che impariamo dal mondo selvaggio
diventano il galateo della libertà. Possiamo goderci la
nostra umanità, con il suo spettacolare cervello e la sua
vibrante sessualità, le sue ambizioni sociali e i suoi
ostinati malumori, senza ritenerci né più né meno di
qualsiasi altro essere” (3). Il mondo artico per Buck è
infine il luogo del recupero della dimensione immaginale in
cui millenni di storia e lotte, combattimenti ed alleanze,
attacchi e fughe, lo hanno reso capace di adattarsi
all’ambiente, vivere e sopravvivere senza intaccare
dannosamente la ricchezza della natura circostante da cui
dipende la sua stessa sopravvivenza. Ma questa dimensione
immaginale è presente anche nell’uomo.
“Il profondo della mente, l’inconscio, è la nostra
wilderness (natura incontaminata, n.d. r) interna” (4). E’
lì che si trovano adesso Buck, e l’orso, e l’anatra, e il
lupo. La cui presenza in noi ci viene comunicata anche dal
qui presente corpo ed i suoi sensi. La presenza di questi
aspetti nell’uomo, cioè del mondo selvatico e incontaminato,
è un segnale a ben sperare: ascoltandoli, accettando come
Buck le loro leggi, iniziando a stabilire con l’ambiente un
rapporto fondato sull’ascolto della disponibilità non
infinita della natura e sul riconoscimento della sacralità
dell’inevitabile prendere e dare è possibile forse
ristabilire un’antica amicizia. Quella tra il primo cane, il
primo albero ed il primo uomo che insieme correvano in
un’estasi “che segna il culmine della vita, oltre il quale
la vita non può innalzarsi. E, tale è il paradosso del
vivere, quell’estasi giunge quanto più si è vivi, ma giunge
come oblio completo dell’essere vivi. (5) L’uomo,
soprattutto il maschio, vuole tornare libero a correre come
Buck. Invece la sua naturalezza è bloccata da un “manierismo
sociale, il modo di esprimersi proposto dalla collettività,
che di solito tende a privilegiare alcuni aspetti
dell’esistenza (la salvaguardia delle cose come stanno,
l’accettazione del potere così come si presenta) rispetto ad
altre esigenze, più profonde…” (6). Tra cui quella di
correre nella luce magica lunare con un cane e un albero al
fianco.
(1)
Snyder G., Nel mondo selvaggio. Andata e ritorno tra i
luoghi incontaminati della natura in cerca della natura
incontaminata dell’uomo, Red, Como, 1992, p. 35. (2) Bonesio
L.- Resta C., Passaggi al bosco, Mimesis, Milano, 2000, p.
127-128.
(3) Snyder G., op. cit., p. 40.
(4) Ivi, p. 33.
(5) London J., Il richiamo della foresta, p. 44.
(6) Cfr. Risè C., L’interdetto sociale: le “buone maniere”,
in Il Maschio selvatico, Red, Como, 93, p. 56.