di questi tempi bisogna almeno pensare da eroi, per comportarsi da galantuomini appena appena passabili

Dal grande Testo, al piccolo spettacolo                                                        (considerazioni serie assai, solo per i fedelissimi!)

Don Chisciotte, con ostinata devozione alla verità dell'immaginazione, gioca a fare il cavaliere errante. Il gioco, a differenza della pazzia, è un’attività volontaria. Il Cavaliere si colloca in un luogo e in un tempo ideali ed è fedele alla propria libertà, al disinteresse e all’esclusività, nonché ai limiti di essa. Focault lo descrive come un pazzo che continua ad essere in un mondo che non lo sopporta più, non sopporta più questo legame profondo di somiglianza tra le parole e le cose, tra la scrittura e la realtà. Il vero conflitto non è con i mulini a vento, o con il mago Frestone che ha trasformato i giganti in mulini per ingannarlo, poiché invero che quelli sono mulini Chisciotte lo sa. E sa che Dulcinea è una donna umile e non certo bella, ma non importa, ciò che importa è trovare le somiglianze e credere che queste somiglianze siano, ancora, la realtà. Quei mulini sono mulini ma Chisciotte dice che assomigliano tanto ai giganti che lo diventano, questo cercare ossessivamente similitudini, rapporti tra le cose che sono e le cose che vorremmo che fossero è in fondo la vera follia di Chischiotte, che è  follia tutta letteraria, ma follia necessaria. E' l’inganno, e l’autoinganno della "letteratura" rispetto alla "vita". Ma poeticamente trova la misura delle cose nell'essere somiglianti alle idee che ci facciamo su di esse, ma non perfettamente coincidenti, si colloca sempre in uno scarto sottile tra ciò che è e ciò che vorremmo fosse, ciò che è e ciò che crediamo sia, quindi trova le similitudini disperse tra le cose, quelle che gli occhi quotidiani non vedono: questa è la grande virtù del poeta, «cavaliere dalla triste figura» dell’avventuroso folle che ci fa più saggi, con la sua follia.

La poesia è anche questo, il teatro è anche questo, il nostro spettacolo anela ad essere anche questo: una necessaria finzione che non deve portarci fuori dal reale, ma aprire nel reale uno spazio che non è servo al servizio di nulla, e per questo, è necessario.

Accanto a lui dovrebbe esserci Sancio, che della fede incarnava la facoltà di ammirare, e di fidarsi. Ne aveva bisogno per parlare, vale a dire per pensare ad alta voce senza infingimenti, per udire se stesso e per udire la viva eco della propria voce nel mondo. Sancio era il suo coro, era tutta l'umanità, era colui che intendeva le sue parole e credeva alle sue promesse. "E nella persona di Sancio egli amò l'umanità intera". Ma dove trovare un sancio oggidì? E nello spettacolo, in parte riattualizzato ai nostri giorni, si dovrà fare conto con questa grande assenza

Chisciotte autore di se stesso, e del suo mito, quasi riducendo Cervantes (e naturalmente e sommamente ancor più l'autore del nostro spettacolo) a semplice scrivano - sebbene ispirato - di un'opera a lui superiore: la trascrizione di un atto di fede. La sua fede apparentemente cieca, diviene per noi anche una guida per renderci perplessi, un richiamo a quel filosofico "dubbio" che tanta parte ha avuto nelle migliori opere dell'ingegno. Ma senza infiacchire per questo lo slancio a riconoscersi in grandi e universali valori, sempre più in disuso ahinoi!
E' qui l'eroismo di Chisciotte: nel suo credere. "Credette che fosse verità ciò che era solamente bellezza. E lo credette con fede talmente viva, con fede generatrice di opere a tal punto, che decise di mettere in pratica quel che la sua follia gli mostrava, "e solamente col crederlo lo trasformò in realtà".
E infine anche abbandono, della sola idealità, e partecipazione, al reale. Partecipare, non tanto per appropriarsi del reale (e chi lo vuole poi, il tristo che già c’è!?) quanto per  volerlo cambiare... addirittura?... ebbene sì!

foto di Alessandro Albert, settembre 2010