Melologo e pantomima musicale originale sul romanzo di Jack London    marte costa - ©2008

«Era dominato dal violento insorgere della vita, dalla marea dell'essere, dalla completa gioia di ogni singolo muscolo, di ogni giuntura, di ogni nervo in quanto essi erano tutto ciò che non è morte, tutto ciò che arde e che aggredisce esprimendosi nel movimento, volando esultante sotto le stelle e sulla superficie della materia immobile.»                                                                                                                                                                   Jack London, il Richiamo della Foresta (1903)

Nel più celebre dei romanzi di Jack London, Buck, fugge dagli agi per riconquistare, a nostro avviso, più che la libertà, la sua vera intima essenza, la sua individualità e compiutezza... l’anima? Dalla tranquilla esistenza nella casa californiana, viene ingannato, rapito, bastonato, affamato, costretto ad un lavoro annichilente ed al freddo estremo, e dopo una breve tregua di ultima possibile amicizia con l’uomo, torna infine alla primitiva foresta, accanto ai lupi, suoi "fratelli selvaggi". In una narrazione di epica immediatezza, di straordinaria, essenziale intensità London crea nella figura di Buck l'immagine emblematica di una fuga dalle convenzioni e dalle pastoie della civiltà. Buck compie un viaggio a ritroso, riappropriandosi della sua natura di lupo. Al contrario, l'uomo si allontana dalla semplicità di un'esistenza naturale per cercare la, presunta, ricchezza. E va così incontro alla propria distruzione.

Una lettura sulla Wilderness  Jack London - Il richiamo della foresta (The Call of the Wild) (Einaudi, Torino, 1996)

Il cane Buck si sentiva davvero a suo agio nella ricca e sicura tenuta del Giudice Miller.
Non gli mancava nulla ed era tenuto in così gran considerazione da sentirsi il sovrano di tutte le cose viventi e non che lo circondavano. Le sue serate le passava accucciato tra le gambe del padrone davanti al caminetto. Ma, normale destino per chi sta come lui, un giorno viene rapito a tradimento e venduto per pochi soldi ai cercatori d’oro. Nel giro di poco tempo si ritrova ingabbiato e bastonato, obbligato a tirare slitte su e giù per l’Artico, in un ambiente ostile ed al limite della sopravvivenza. Questo ambiente, frequentato da animali selvaggi e feroci, capace in pochi minuti di inghiottirsi uomini cani e slitte, incontaminato nelle sue notti di luna piena o di bufera sarà la benedizione per Buck.
Infatti “il mondo dei sentieri della natura selvatica è una scuola straordinaria, e coloro che ci vivono possono essere maestri rudi e divertenti” (1). Sarà qui, nell’ostilità e nello stupore di fronte a quegli scenari, che Buck imparerà a cavarsela. I suoi sensi si esalteranno in modo inaspettato, il suo istinto lo guiderà infallibilmente nell’orientamento, la sua ferocia ed il senso di giustizia convivranno, imparerà ad uccidere gli altri animali solo quando ha fame e non come passatempo. Scoprirà dolorosamente una libertà che anche per l’uomo, oggi sottoposto ad una “elementarizzazione, una riduzione della complessità che finisce per cancellare ogni tratto individuale e ogni profondità ontologica” (2), sarebbe di grande beneficio.
Infatti “le lezioni che impariamo dal mondo selvaggio diventano il galateo della libertà. Possiamo goderci la nostra umanità, con il suo spettacolare cervello e la sua vibrante sessualità, le sue ambizioni sociali e i suoi ostinati malumori, senza ritenerci né più né meno di qualsiasi altro essere” (3). Il mondo artico per Buck è infine il luogo del recupero della dimensione immaginale in cui millenni di storia e lotte, combattimenti ed alleanze, attacchi e fughe, lo hanno reso capace di adattarsi all’ambiente, vivere e sopravvivere senza intaccare dannosamente la ricchezza della natura circostante da cui dipende la sua stessa sopravvivenza. Ma questa dimensione immaginale è presente anche nell’uomo.
“Il profondo della mente, l’inconscio, è la nostra wilderness (natura incontaminata, n.d. r) interna” (4). E’ lì che si trovano adesso Buck, e l’orso, e l’anatra, e il lupo. La cui presenza in noi ci viene comunicata anche dal qui presente corpo ed i suoi sensi. La presenza di questi aspetti nell’uomo, cioè del mondo selvatico e incontaminato, è un segnale a ben sperare: ascoltandoli, accettando come Buck le loro leggi, iniziando a stabilire con l’ambiente un rapporto fondato sull’ascolto della disponibilità non infinita della natura e sul riconoscimento della sacralità dell’inevitabile prendere e dare è possibile forse ristabilire un’antica amicizia. Quella tra il primo cane, il primo albero ed il primo uomo che insieme correvano in un’estasi “che segna il culmine della vita, oltre il quale la vita non può innalzarsi. E, tale è il paradosso del vivere, quell’estasi giunge quanto più si è vivi, ma giunge come oblio completo dell’essere vivi. (5) L’uomo, soprattutto il maschio, vuole tornare libero a correre come Buck. Invece la sua naturalezza è bloccata da un “manierismo sociale, il modo di esprimersi proposto dalla collettività, che di solito tende a privilegiare alcuni aspetti dell’esistenza (la salvaguardia delle cose come stanno, l’accettazione del potere così come si presenta) rispetto ad altre esigenze, più profonde…” (6). Tra cui quella di correre nella luce magica lunare con un cane e un albero al fianco.
 

(1) Snyder G., Nel mondo selvaggio. Andata e ritorno tra i luoghi incontaminati della natura in cerca della natura incontaminata dell’uomo, Red, Como, 1992, p. 35. (2) Bonesio L.- Resta C., Passaggi al bosco, Mimesis, Milano, 2000, p. 127-128.
(3) Snyder G., op. cit., p. 40.
(4) Ivi, p. 33.
(5) London J., Il richiamo della foresta, p. 44.
(6) Cfr. Risè C., L’interdetto sociale: le “buone maniere”, in Il Maschio selvatico, Red, Como, 93, p. 56.